lunedì 27 giugno 2011
Nuova Maniera
La Nuova Maniera
Qualche anno dopo la morte di fra' Girolamo Savonarola avvenuta nel 1498, giustiziato per aver attaccato la corruzione della Chiesa di Roma e il lusso scandaloso dei Medici a Firenze, un'altra voce di protesta si leva in Germania da un frate domenicano Lutero. Lutero concepiva una chiesa riformata senza immagini, mentre Savonarola auspicava alle immagini come una Bibbia per analfabeti.
Gli artisti non si sentirono coinvolti da questa nuova ondata fino al 1527 quando l'esercito imperiale, composto da truppe luterane, prese d'assalto Roma dandosi al saccheggio e alla profanazione delle chiese.
Nel 1545 si aprì il Concilio di Trento che si occupò della politica della Chiesa, e i reazionari ecclesiastici erano abbastanza colti da capire che l'arte è un potente strumento di propaganda: le immagini parlano agli incolti, quando non ci riescono le parole. Fu decretato che l'arte religiosa dovesse raffigurare le cose in modo inequivocabile; la nudità era malvista. Le figure nude del Giudizio Universale di Michelangelo furono molto discusse e Papa Paolo IV ordinò che si dipingessero panneggi sui lombi esposti.
L'arbitro ultimo di tutte le questioni era Dio, o i suoi rappresentanti sulla Terra.
I Gesuiti, che parteciparono attivamente alle decisioni del Concilio, compresero anche che non è la severa austerità a far leva sull'animo ma l'emozione estatica che penetrava nel cuore degli uomini; non solo prendendo la riforma luterana in contropiede, all'austerità dei protestanti oppongono lo splendore che fa appello ai sensi e ordinano agli artisti di coprire le chiese di marmi, lapislazzuli, bronzo e oro, al fine di rendere attraenti al culto i luoghi per la massa dei fedeli. Le opere della Controriforma si rivolgono così ai sentimenti e alle e mozioni del popolo in opposizione a quelle Rinascimentali rivolte all'intelletto e a pochi eletti.
Coloro che continuavano a tenere vivo l'umanesimo del rinascimento rischiavano la censura se non peggio: Paolo Veronese nel 1453, fu costretto a difendere l'opera La Cena in casa di Levi davanti all'Inquisizione che pretendeva di sapere perché contenesse figure non menzionate nella Bibbia, ed egli dovrà correggere il quadro.
Ciò che importava nei quadri religiosi è che nulla allontanasse il pensiero dal soggetto. I paesaggi che a poco a poco si erano integrati nelle scene religiose, ne vennero espulsi acquistando una vita propria, così come le scene familiari e le nature morte.
Pontormo (1494 - 1556)
Egli evita qualsiasi riferimento di luogo e tempo e trasforma l'evento sacro in una danza allucinata e immateriale grazie all'adozione di una gamma di tinte pastello prive di chiaroscuro, per esprimere senza alcuna interferenza il valore tragico dell'evento
sabato 10 luglio 2010
IL POETA NELL'ETÀ DELLA GUERRA
Questa intervista a Edoardo Sanguineti è stata realizzata a Palermo in occasione dei quarant’anni del Gruppo 63. A distanza di cinque rocamboleschi anni, i temi affrontati non hanno perso nulla della loro bruciante attualità. La questione scottante era la costruzione di un presente alternativo a quello mistificatorio e oscurantista che sta segnando la vita politica e culturale del nostro paese e non solo... |
Inizierei subito domandandole: che cos’è un poeta oggi? Credo che per certi riguardi si ponga lo stesso problema che si è posto sempre almeno nel mondo moderno e in largo senso, cioè un lavoro che muove da iniziativa personale e che può avere le ragioni psicologiche più diverse, oltre che di stimoli sociali sempre notevoli che variano nel tempo e socialmente e cioè un bisogno, dico molto genericamente di comunicazione. A me piace esprimere questa cosa in questi termini, cioè ci sono due modi di porsi il problema: o si considera che c’è un poeta che è poeta e in quanto poeta, per sua natura, indole produce poesie perché ha una natura acquisita o naturale poetica, o viceversa qualcuno che propone dei testi poetici e poi questi trovano un consenso sociale che può essere molto limitato, può essere clamorosamente risonante, può avere alti e bassi durante la propria esistenza. Io sono di questa seconda opinione: cioè si è poeti quando la comunicazione giunge a un committente (?) che una volta poteva essere quello di una corte, di una autorità, di una società ristretta, aristocratica, un’accademia. Nella storia, come dire, gli strumenti di collocazione, i committenti più o meno espliciti evidentemente sono stati molto diversi. Se questa risposta esiste, allora si è poeti. Ma non perché ci sia qualche punto di partenza a priori che non sia il generico bisogno, che tutti abbiamo, di comunicare che può assumere questa forma, chi sperimenta questo tipo può trovare una risposta o no. Nel mondo moderno, in senso più stretto, nel mondo dell’età borghese ci si trova di fronte non più a dei committenti espliciti o a dei controlli culturali come può essere una società letteraria del tipo l’Arcadia, ma di fronte a quell’ente molto indeterminato che è il pubblico e che alla fin fine si concreta nell’acquirente dell’opera. Questo vale per il quadro come per la musica, che non nasce più da una committenza netta, se non per quel tanto che sopravvive in contraddizione... Ci può essere una società concertistica, un teatro che propone un’opera. Però il fatto che questa possa trovare o no consenso onorevole dipende da un pubblico pagante indeterminato, è una condizione, come si dice, di merce. Mi sembra che questa sia l’origine del fenomeno. È uno scenario cinico... Forse ciò deriva anche da quanto lei osservava relativamente alla poesia della crudeltà, cioè questa dimensione in cui il pubblico diventa in qualche modo il secondo attore, se non il principale, rispetto alla poesia e alle arti in genere. Voglio dire che questa dimensione della crudeltà significa anche un modo di mettere in gioco un’autonomia rispetto a chi produce un testo?
Oggi si parla molto di questa dimensione del pensiero unico e di come vi sia in atto un becero revisionismo nei confronti della storia. E ciò produce anche nella conoscenza che non è addestrata alle trappole del revisionismo uno stato confusionale, un vuoto etico della conoscenza. Rispetto a questo scenario il poeta ha ancora l’obbligo di comunicare... cosa? L’esercizio poetico in quanto tale oppure cos’altro? la parola resistenza od opposizione rientra nelle sue preoccupazioni? Come dice Baudrillard, "loro l’hanno fatto, ma l’Occidente se l’è cercato”? C’è ancora, da qualche parte, un’eredità delle avanguardie? Breton, Bataille, seppure in forme differenti se non opposte, hanno coniugato arte, esperienza di pensiero e politica, e questa coniugazione avveniva soprattutto in tempi di totalitarismo cruento, quindi con un forte rischio personale, come è accaduto a molti intellettuali soprattutto in Italia (Gramsci, Pavese e altri). Oggi invece sembra sussistere un’anestesia generale, un’indifferenza allarmante, un senso di passività che rende le cose ancora più facili per i revisionisti e il neofascismo mediatico... Alcune sue prese di posizione provocano fastidio, forse perché coniuga poesie e impegno civile e in ogni caso perché, comunque, legge i fenomeni artistici sempre connessi o immessi direttamente in una dimensione che è sociale e politica a un tempo. Probabilmente è questo che da fastidio ad alcuni critici arruolati nelle liste del revisionismo o che provoca irritazione negli ambienti letterari accademici... |
domenica 20 giugno 2010
La bellezza è nel cervello di chi guarda
A che cosa serve l’arte? Che cosa vuole comunicare un artista? Il “senso del bello” è oggettivo o soggettivo? Sono tutte domande a cui cerca di rispondere la NEUROESTETICA.
Un’opera d’arte è “bella” perché aumenta la nostra conoscenza del mondo. E gli artisti non sono molto diversi dagli scienziati perché, attraverso un metodo e un linguaggio diverso da quello scientifico, hanno scoperto qualcosa di nuovo, “vedono” qualcosa che noi non vediamo, e tentano di comunicarcelo. E’ questa, in sintesi, la tesi di Semir Zeki, professore di neurologia presso lo University College di Londra che, intorno alla metà degli anni Novanta, ha fondato una nuova disciplina: la neuroestetica.
Il cervello è un artista…
semir zeki
Secondo Zeki l’arte, e soprattutto la pittura, è uno strumento straordinario per studiare i processi nervosi attraverso i quali il cervello percepisce la realtà. Di più: anche il nostro cervello quando “vede”, è un artista. In passato si pensava che la visione fosse un sistema passivo, cioè che l’occhio fosse semplicemente un canale attraverso cui passavano i segnali dall’esterno, che arrivavano al cervello così com’erano: l’immagine impressa sulla retina, si diceva, viene “proiettata” sulla corteccia visiva. Oggi sappiamo che la faccenda è ben più complessa. La retina opera una prima selezione: filtra i segnali visivi, registra le variazioni dell’intensità e della composizione spettrale della luce e trasmette queste sensazioni alla corteccia cerebrale. E qui parte un sistema elaboratissimo. La corteccia visiva comprende infatti una corteccia primaria (che agisce da “centro di smistamento”) e una serie di aree associative, che collaborano nell’interpretazione dei segnali. Ci sono per esempio cellule che reagiscono alle diverse lunghezze d’onda della luce trasformando queste informazioni in colori: i colori, quindi, di fatto non esistono, sono una costruzione del cervello sulla base di certe proprietà fisiche delle superfici. Ci sono poi cellule sensibili alla forma e cellule sensibili al movimento o all’orientamento spaziale (alcuni neuroni reagiscono alle linee orizzontali, altri alle linee verticali). C’è inoltre una vasta area specializzata nel riconoscimento dei volti e delle espressioni facciali, e aree sensibili ai movimenti del corpo. Inoltre la vicinanza del lobo temporale, e in particolare dell’ippocampo, risveglia le tracce mnemoniche e permette di confrontare l’immagine registrata con quelle già immagazzinate nella memoria.
le aree visive
In pratica il cervello opera una scelta tra tutti i dati disponibili e, confrontando l’informazione selezionata con i ricordi immagazzinati, genera l’immagine visiva con un procedimento molto simile a quello messo in atto da un artista quando dipinge un quadro. Il nostro cervello, cioè, non è un semplice cronista che si limita a registrare in modo passivo la realtà fisica del mondo esterno, ma è piuttosto un creativo: ogni volta che “vediamo” di fatto costruiamo nella nostra testa un’opera d’arte. Del resto il sistema visivo è un processo che si è evoluto lungo un arco di tempo di milioni anni: abbiamo imparato molto prima a vedere che a parlare. “E’ significativo il fatto che, di fronte a qualcosa di estremamente bello, non sappiamo spiegare la sua forza espressiva a parole” fa notare Zeki. “Si parla di ‘bellezza ineffabile’ perché il linguaggio resta muto, non è in grado di comunicarla. Forse proprio perché il sistema visivo, essendo antecedente al linguaggio, è molto più efficiente”.
sabato 5 giugno 2010
RUBENS E I FIAMMINGHI ....
Borea rapisce Orizia, olio su tavola, cm 146 x 140,5
Como, Villa Olmo
Dal 27 marzo al 25 luglio 2010
Peter Paul Rubens
Como organizza la settima grande mostra a Villa Olmo.
I successi delle rassegne dedicate a Mirò, Picasso, Magritte, agli Impressionisti, a Klimt e Schiele, e ai maestri dell’Avanguardia russa Chagall, Kandinsky e Malevic, visitate da oltre 500.000 persone per una media annuale di circa 90.000 visitatori, hanno fatto del capoluogo lariano uno dei punti di riferimento del circuito espositivo italiano.
Le sale della settecentesca Villa Olmo si aprono dal 27 marzo al 25 luglio 2010 al genio di PIETER PAUL RUBENS (Siegen, 28 giugno 1577 – Anversa, 30 maggio 1640), maestro del Barocco.
Uno sforzo considerevole quello del curatore della mostra Sergio Gaddi, assessore alla cultura del Comune di Como, che insieme a Renate Trnek, direttrice della Gemäldegalerie dell’Accademia di Belle Arti di Vienna, è riuscito a radunare ben 25 capolavori del maestro fiammingo provenienti dalle collezioni della Gemäldegalerie dell’Accademia di Belle Arti, dal Liechtenstein Museum e dal Kunsthistorisches Museum di Vienna. Ideata dall’assessorato alla cultura del Comune di Como, la mostra presenta uno dei nuclei di Rubens numericamente più importanti finora mai esposti in Italia, oltre a 40 opere di artisti della sua cerchia, tra i quali il grande Anton Van Dyck, Jacob Jordaens, Gaspar de Crayer, Pieter Boel, Cornelis de Vos, Theodor Thulden.
“La mostra di Villa Olmo - commenta il curatore Sergio Gaddi - celebra la genialità e la modernità di uno dei maestri assoluti della pittura, che dopo quattrocento anni continua a sorprendere per la potenza grandiosa ed esuberante del segno che ha reso universale il Barocco europeo. Rubens è sempre contemporaneo perché fissa nel tempo l’infinita bellezza del mondo e riesce a infondere la vita alle sue creazioni attraverso la luce e il colore. La sua pittura è una festa per l’anima e per gli occhi, e le opere esposte a Como raccontano l’inesauribile gusto per la vita del grande artista e la prodigiosa forza di seduzione che nasce dalle sue visioni. Il consistente nucleo di opere di Rubens è integrato da una raffinata selezione di quadri di artisti variamente legati ad Anversa e all’atelier del maestro, che permette un viaggio appassionante nell’epoca d’oro della pittura fiamminga del Seicento”.
“Con Rubens e i suoi epigoni fiamminghi - sostiene il sindaco di Como, Stefano Bruni - Como si appresta a vivere un’altra straordinaria stagione di grandi eventi, un ulteriore passo di un percorso ambizioso iniziato nel 2004 e che a pieno titolo ci ha già inserito nel circuito delle città d’arte, con importanti benefici per il territorio, per la naturale vocazione turistica e per il prestigio della nostra città. Dopo sette anni, continuo quindi a sostenere e a credere nella straordinaria forza propulsiva delle mostre e nella loro capacità attrattiva”.
Il percorso espositivo studiato da Sergio Gaddi per le nove sale di Villa Olmo, si snoda attraverso i temi caratteristici della pittura di Rubens, come i soggetti sacri, i riferimenti alla storia e al mito, e contempla alcuni dei maggiori capolavori del maestro fiammingo.
Tra questi, le Tre Grazie (1620-1624), vero manifesto dell’ideale bellezza femminile del tempo e che Rubens rappresenta sul modello del gruppo scultoreo ellenistico ritrovato a Roma nel XV secolo. Rubens dipinse il motivo delle Tre Grazie diverse volte, come soggetto singolo o inserito in un contesto più ampio. In questo caso, i tre personaggi femminili sono impersonati nelle figure delle dee greche delle stagioni, vestite solo di un leggerissimo velo, che reggono un cesto di fiori, donando loro uno straordinario movimento circolare e un naturale ed elegante intreccio di braccia e di mani.
Borea rapisce Orizia (1615), vigoroso capolavoro e immagine guida della mostra, rappresenta il rapimento, narrato da Ovidio nelle Metamorfosi, della ninfa Orizia, da parte del barbuto e alato Borea, personificazione del vento del nord. Rubens fonde i due corpi in un avvolgente e fluttuante abbraccio, catturando il momento di transizione che dalla paura e violenza del rapimento conduce a un’estasi di amore e fantasia. Il corpo di Orizia, come quello di tutte le figure femminili di Rubens, è reso con un incarnato talmente realistico e vivo da far domandare a Guido Reni: “Ma questo pittore mescola il sangue ai colori?”
Due opere di straordinaria importanza presenti in mostra sono La circoncisione di Cristo (1605), che risponde a precise indicazioni iconografiche dettate dalla Controriforma di espressione chiara ed immediata di partecipazione al sentimento religioso, e la Madonna della Vallicella (1608) - forse la commessa di maggior prestigio che l’artista ricevette in Italia - due modelli per le pale d’altare della Chiesa dei Gesuiti a Genova e di Santa Maria della Vallicella a Roma, dove l’impostazione teatrale della luce e l’atmosfera cromatica rivelano l’influsso dei grandi pittori veneziani del Cinquecento, che Rubens aveva studiato durante il suo soggiorno a Venezia del 1600.
L’imponente dipinto Il satiro sognante, una delle opere più insolite del maestro fiammingo, realizzata tra il 1610 e il 1612 poco dopo il suo ritorno in Italia, colpisce, oltre che per la sua allegorica sensualità, per l’architettura della composizione che contrappone il gruppo composto da Bacco, dal satiro ubriaco e dalla Menade, a una traboccante natura morta, composta da un prezioso vasellame dorato e da una ricca serie di calici e coppe.
Un’assoluta rarità è Il giudizio di Paride (1605-1608), una delle sole quattro opere che Rubens realizza su tavola di rame, supporto inconsueto per un tema ricorrente nella sua pittura, più volte ripreso fino al famoso quadro del 1638-39 commissionato dal re di Spagna Filippo IV, ora al Prado di Madrid. È questo uno dei più incantevoli ‘poemi’ dipinti da Rubens, in cui tutto, dall’insieme della composizione, alle figure al paesaggio, al cielo che le sovrasta, si risolve nel colore e nella pittura stesa con pennellate fluide, fondendo in un unicum indissolubile sia le figure che l’ambiente che le circonda. Il dipinto raffigura la competizione tra le dee Giunone, Minerva e Venere per il titolo di donna più bella dell’Olimpo, giudicate da Paride.
Particolarmente significative sono le due grandi tele che raffigurano Vittoria e Virtù e Il trofeo di armi, appartenenti al ciclo che Rubens dedicò al console romano Publio Decio Mure (1616-1617). Il tema dei quadri è ispirato alle vicende dell’eroico condottiero vissuto nel IV secolo a.C., la cui storia è stata tramandata da Tito Livio. Le grandi imprese hanno sempre stimolato l’artista, tanto da fargli dire, in una lettera del 1621 indirizzata a William Trumbull: “Confesso che una dote innata mi ha chiamato a eseguire grandi opere piuttosto che piccole curiosità. Ciascuno ha la sua maniera. Il mio talento è di siffatta guisa che nessuna impresa, per quanto grande e multiforme nell’oggetto, potrà sormontare la fiducia che ripongo in me stesso”.
Di notevole valore storico, oltre che artistico, la serie dei piccoli oli su tavola di soggetto sacro, dipinti da Rubens come modelli preparatori per i 39 dipinti commissionatigli nel 1620 per i soffitti della chiesa dei Gesuiti di Anversa, opere che andarono poi distrutte dall’incendio della chiesa del 1718. La costruzione pittorica di particolare dinamismo e la prospettiva dal basso verso l’alto testimoniano la suggestione di Paolo Veronese esercitata sulla fantasia di Rubens. In questi preziosi lavori preparatori sopravvissuti è possibile incontrare più che mai la mano autografa dell’artista, che realizzava personalmente i bozzetti affidandosi poi alla collaborazione della bottega per il perfezionamento dell’opera finale.
AAccanto a questi capolavori di Rubens, la mostra di Villa Olmo propone 40 tele realizzate da pittori fiamminghi della sua cerchia, in particolare di Anton Van Dyck, amico del maestro e certamente l’allievo di maggior talento – di cui è presente, tra gli altri, il famoso Autoritratto giovanile e lo splendido Ritratto in armi del giovane principe - oltre che opere di Jacob Jordaens, Gaspar de Crayer e Theodor Thulden.
Tra i fiamminghi spiccano, per particolare pregio e minuzia del dettaglio, le nature morte di Pieter Boel, Jan Fyt e Jan De Heem in cui è possibile incontrare quella commistione di naturalismo, esotismo e artificialità tipica delle raccolte nobiliari delle kunstkammern tanto di moda nei Paesi Bassi del XVII secolo. È il caso di Natura morta con mappamondo, tappeto e cacatua di Pieter Boel o Natura morta con frutta e scimmia di Jan Fyt o ancora la sontuosa Natura morta con pappagallo di Jan Davidsz de Heem. Una variante della natura morta, molto apprezzata nelle Fiandre intorno alla metà del Seicento è quella delle scene di cacciagione, ben rappresentate in mostra da opere come Il pavone bianco di Jan Weenix (1693), o le due Natura morta con cacciagione, rispettivamente di Jan Fyt e Melchior Hondecoeter.
Don Chisciotte, cavaliere del Barocco è il nuovo progetto teatrale, a cura di Teatro in Mostra di Como, regia di Eleonora Moro, che anche quest’anno si affianca all’esposizione come evento parallelo di approfondimento didattico per indagare i legami tra Rubens e l’epoca barocca.
Catalogo Silvana Editoriale.