sabato 10 luglio 2010

IL POETA NELL'ETÀ DELLA GUERRA


Questa intervista a Edoardo Sanguineti è stata realizzata a Palermo in occasione dei quarant’anni del Gruppo 63. A distanza di cinque rocamboleschi anni, i temi affrontati non hanno perso nulla della loro bruciante attualità. La questione scottante era la costruzione di un presente alternativo a quello mistificatorio e oscurantista che sta segnando la vita politica e culturale del nostro paese e non solo...



Inizierei subito domandandole: che cos’è un poeta oggi?
Credo che per certi riguardi si ponga lo stesso problema che si è posto sempre almeno nel mondo moderno e in largo senso, cioè un lavoro che muove da iniziativa personale e che può avere le ragioni psicologiche più diverse, oltre che di stimoli sociali sempre notevoli che variano nel tempo e socialmente e cioè un bisogno, dico molto genericamente di comunicazione. A me piace esprimere questa cosa in questi termini, cioè ci sono due modi di porsi il problema: o si considera che c’è un poeta che è poeta e in quanto poeta, per sua natura, indole produce poesie perché ha una natura acquisita o naturale poetica, o viceversa qualcuno che propone dei testi poetici e poi questi trovano un consenso sociale che può essere molto limitato, può essere clamorosamente risonante, può avere alti e bassi durante la propria esistenza.
Io sono di questa seconda opinione: cioè si è poeti quando la comunicazione giunge a un committente (?) che una volta poteva essere quello di una corte, di una autorità, di una società ristretta, aristocratica, un’accademia. Nella storia, come dire, gli strumenti di collocazione, i committenti più o meno espliciti evidentemente sono stati molto diversi. Se questa risposta esiste, allora si è poeti. Ma non perché ci sia qualche punto di partenza a priori che non sia il generico bisogno, che tutti abbiamo, di comunicare che può assumere questa forma, chi sperimenta questo tipo può trovare una risposta o no.
Edoardo Sanguineti - courtesy FotoGrafia Festival, Roma
Nel mondo moderno, in senso più stretto, nel mondo dell’età borghese ci si trova di fronte non più a dei committenti espliciti o a dei controlli culturali come può essere una società letteraria del tipo l’Arcadia, ma di fronte a quell’ente molto indeterminato che è il pubblico e che alla fin fine si concreta nell’acquirente dell’opera. Questo vale per il quadro come per la musica, che non nasce più da una committenza netta, se non per quel tanto che sopravvive in contraddizione... Ci può essere una società concertistica, un teatro che propone un’opera. Però il fatto che questa possa trovare o no consenso onorevole dipende da un pubblico pagante indeterminato, è una condizione, come si dice, di merce. Mi sembra che questa sia l’origine del fenomeno.

È uno scenario cinico...
Sì, necessariamente. Trovo la parola ‘cinico’ positiva, nel senso che la si può identificare col realismo. Se cerco di guardare la realtà così come essa è in quel che sono le sue strutture essenziali, lo sguardo può apparire evidentemente molto freddo, ma credo che sia una partenza necessaria e che sia inutile o pericoloso travestire in maniera diversa quelli che sono meccanismi oggettivamente prevalenti e a loro modo assolutamente condizionanti.
Naturalmente uno può passare la propria vita a scrivere versi e questi agire poi a distanza di molto tempo, nel senso che un vecchio che ha esaurito la propria carriera, spesse volte è defunto, e qui entrano elementi anche fortuiti, di buona sorte, se l’opera si salva. Allo stesso modo qualcuno che avuto un grande consenso iniziale può essere dimenticato o per sempre o per lunghissimi spazi di tempo. Le fortune sono molto varie.

Antonin Artaud - Autoritratto - 1947 - matita e gessetti colorati su carta - cm 55x43 - coll. privataForse ciò deriva anche da quanto lei osservava relativamente alla poesia della crudeltà, cioè questa dimensione in cui il pubblico diventa in qualche modo il secondo attore, se non il principale, rispetto alla poesia e alle arti in genere. Voglio dire che questa dimensione della crudeltà significa anche un modo di mettere in gioco un’autonomia rispetto a chi produce un testo?
Io mi rifacevo ad Artaud e al teatro della crudeltà, una necessità - come diceva Artaud - di rigore e di una produzione che risponda in qualche modo alle necessità, paragonabili alle necessità più elementari dell’esistenza. Perché, certamente, se il bisogno comunicativo per un essere sociale come l’uomo è primario, questo spiega anche perché si producano tante forme comunicative che possono andare dalla semplice conversazione, dal dialogo della vita quotidiana fino ai prodotti più rarefatti e culturalmente caratterizzati. Io credo nella possibilità di poter produrre dei testi che abbiano un forte valore alternativo e contestativo rispetto a quelle che sono le idee dominanti; ma qui non è più un terreno di constatazione dei meccanismi che reggono, ma di propositi di poetica.

Oggi si parla molto di questa dimensione del pensiero unico e di come vi sia in atto un becero revisionismo nei confronti della storia. E ciò produce anche nella conoscenza che non è addestrata alle trappole del revisionismo uno stato confusionale, un vuoto etico della conoscenza. Rispetto a questo scenario il poeta ha ancora l’obbligo di comunicare... cosa? L’esercizio poetico in quanto tale oppure cos’altro? la parola resistenza od opposizione rientra nelle sue preoccupazioni?
Credo che siano la stessa cosa, almeno se si vuol tener fede a una certa poetica che è una poetica di ordine critico, per cui l’intellettuale, ed è bene che il poeta si senta intellettuale, è un responsabile comunicatore di ideologia. A meno che il poeta ritenga che il mondo vada bene com’è, per cui ritiene impossibile pensare a qualsiasi alterazione di questo stesso mondo. Allora in questo caso si ritiene che "la storia è finita”, come affermano i teorici del neo-conservativismo americano, che hanno cercato di diffondere quest’idea ovunque; ormai il capitalismo ha vinto e non si può andare oltre. E allora se si accetta questo si capisce non c’è da fare un’apologia diretta di tutto questo: le ideologie sono morte e tutto significa tutto, ovvero niente, non c’è che il trionfo della merce e della violenza capitalistica, di guerre preventive che devono tutelare la natura delle cose, insomma dell’imperialismo di Bush...
Bin Laden
Oppure si pensa che la storia non è finita che siamo anche a un livello di proletarizzazione che non si è mai conosciuto, che lo sfruttamento ha raggiunto con la globalizzazione compiuta livelli assolutamente planetari, e a questo punto bisogna mobilitarsi e davvero cercare di resistere, opponendo una visione critica; allora a questo punto l’intellettuale riacquista delle possibilità che non sono quelle decorative, ma ripropone delle scelte che sono prima di tutto di ordine politico e sociale, e cioè: o sto dalla parte dello sfruttamento capitalistico e dell’élite di potere mostruosamente armata, oppure mi schiero dall’altra parte, convinto che la storia non è finita, anzi, per così dire, adesso viene il bello, sia pure un bello orrendo perché il capitalismo una volta diventato davvero planetario nella compiutezza della sua espansione non è più in grado di governare il mondo.
Quello che è impressionate nei Bush come nei Berlusconi in grande o nella sua parodia è questa incapacità di comprendere le cose, di governare le cose, per cui non sanno davvero più come affrontare non solo i piani economici - non c’è più un economista che ne azzecchi una e che sappia consigliare... È tutta una grande roulette che si sta svolgendo sotto gli occhi di tutti, ma insomma, si fa la guerra all’Iraq per scoprire che poi questa guerra è assolutamente irrisolubile, impraticabile, non riesce a rispondere più a nessuna delle pseudo-ragioni - perchè poi le motivazioni con cui si è mossa questa guerra erano assolutamente false e fabbricate, non c’erano le armi di distruzione di massa vantate, dunque c’è nessuna motivazione. L'attacco alle Twin TowersMa la cosa più impressionante è questa: la vecchia Cia o l’Fbi una volta avrebbero portato lì le armi, le avrebbe messe in qualche luogo opportuno e poi avrebbero gridato alla scoperta; hanno fatto così, hanno ammazzato presidenti, rovesciato governi, han fatto tutto quello che potevano per gestire il mondo e ci riuscivano. Ci riuscivano perché riuscivano a gestire il Cile come la Colombia in una maniera che era orrenda ma egemone.
Qui è rimasto l’orrore ma la capacità invece di gestire il mondo non sussiste più, e allora si possono trovare dei complici altrettanto incapaci di capire le cose come Blair, come Aznar o il nostro povero Berlusconi, pronti solo a una guerra preventiva, totalmente arbitraria e mossa da deliri; con l’idea totalmente fantastica di aver di fronte dei poveri terroristi fanatici quando hanno invece un uomo come Bin Laden, che è uno dei più ricchi capitalisti del mondo, tecnologicamente preparatissimo, tanto da riuscire a buttar giù due grattacieli, il che non è fatto da fanatici impreparati ma anzi da gente che sa benissimo gestire le tecnologie più raffinate.

Come dice Baudrillard, "loro l’hanno fatto, ma l’Occidente se l’è cercato?
Sì, la violenza con cui il capitalismo si è impadronito del mondo ha suscitato delle reazioni, ma la lotta al momento attuale non è affatto una lotta fra capitalisti e proletari; i proletari al momento sono inconsapevoli, passano per essere i poveri della terra e la categoria povero è una categoria che risponde a modi diversi da quelli di un materialista storico. La povertà è un fenomeno ma non coincide necessariamente con la condizione del proletario. C’è un proletariato totalmente inconsapevole di sé, quindi non in grado al momento di organizzare una risposta adeguata.
Quello che esiste è la lotta fra due forme di capitalismo: un capitalismo, quello più legato alla tradizione classica e che trova incarnazione nel modello americano, e un altro capitalismo di ordine più spregiudicatamente finanziario, che è quello rappresentato da Bin Laden. Bin Laden non è un rappresentante di proletari che possa utilizzare dei poveri, trova un perfetto equivalente nei volontari dell’esercito americano che sono dei sottoproletari americani che si fanno volontari per sopravvivere, esattamente come i carabinieri nostri che sono andati là perché hanno dei contratti che permettono loro di sfuggire alla disoccupazione, di dare un po’ di soldi a casa, ma quello è appunto un esercito in qualche modo mercenario, come sempre più si configura una volta che si abbandoni il principio della grande tradizione democratica borghese, che per lo meno pensava all’esercito come espressione della nazione, come un dovere...
Oramai l’esercito è diventato un esercito di mercenari tecnologi raccattati però nelle fasce più povere della società. Come una volta il povero contadino, settimo figlio di una famiglia, doveva fare o il prete o il carabiniere...

Georges BatailleC’è ancora, da qualche parte, un’eredità delle avanguardie? Breton, Bataille, seppure in forme differenti se non opposte, hanno coniugato arte, esperienza di pensiero e politica, e questa coniugazione avveniva soprattutto in tempi di totalitarismo cruento, quindi con un forte rischio personale, come è accaduto a molti intellettuali soprattutto in Italia (Gramsci, Pavese e altri). Oggi invece sembra sussistere un’anestesia generale, un’indifferenza allarmante, un senso di passività che rende le cose ancora più facili per i revisionisti e il neofascismo mediatico...
Credo che Breton abbia avuto il grande merito di costituire un movimento che prima di tutto cercava di uscire dall’estetica. Il momento migliore è quando il programma non è affatto di creare di opere letterarie o d’arte, ma cercare di decifrare i comportamenti della psiche umana. Quando il Surrealismo proclamava inizialmente le libere associazioni, il delirio coltivato, il dar voce liberissima all’inconscio, era molto più interessato al funzionamento della psiche che non a risultati d’arte. Poi a mano a mano questo nucleo iniziale nei manifesti si è trasformato in prodotto estetico, e in questo le arti figurative giocano un ruolo essenziale, perché il gioco letterale, chiamiamolo così, poteva ancora essere in qualche modo sottratto a questa trasformazione...
Se faccio quadri è molto più difficile. Il quadro si presenta subito come un oggetto che vuole un mercato ed è chiaro che fare un quadro che non si presenti come opera d’arte è molto più precario: o faccio le tavole di Rorschach o cose evidentemente orientate come test o come pure proiezioni dell’inconscio, oppure a un certo punto io utilizzo l’inconscio a fini estetici. Però c’è il grande merito di aver fatto i conti precisamente con Freud come con Marx, o almeno di aver tentato di farli. Il momento del Surrealismo al servizio della rivoluzione, il momento in cui sia pure col dissenso evidente di Freud si cerca di praticare l’inconscio, vuol dire tentare di fare i conti con i due momenti culturali più rilevanti che si potevano avere nella prima metà del Novecento e che non sono affatto superati.
Quanto alla posizione di Bataille, è una posizione per molti aspetti più ricca di fascino, ma anche meno, credo, politicamente significativa.
Marx non ha mai pensato che necessariamente il proletariato avrebbe costituito la nuova società: il proletariato poteva essere sconfitto. Quando due classi, scrive Marx, sono in conflitto per l’egemonia, o l’una cade o cade l’altra o cadono tutte e due. Credo che la probabilità più alta che noi viviamo nei nostri giorni è il crollo di entrambe, e cioè che il mondo proletario - un proletariato che non sa di essere tale come l’intero continente africano, gran parte dell’India, la Cina forse sta tentando la via più spietata ma anche più avveduta di salvezza, ma tutto questo avviene all’interno di una condizione atomica, siamo seduti sopra mucchi di armi a portata di tutti, ormai è commerciabilissima - beh la cosa più probabile è veramente che siamo alla fine della storia umana.
Edoardo Sanguineti
Mi auguro che questa condizione, che ha un altissimo grado di probabilità, venga superata, ma temo che la vecchia talpa abbia poche probabilità di uno scavo razionale, in parte perché quando continenti interi sono ridotti in condizioni subumane - il caso africano è il più evidente, l’America Latina non sta allegra, le condizioni di dominio mafioso in Unione Sovietica sono catastrofiche, i casi della Cecenia sono del tutto paralleli a quello che può capitare in Afghanistan e in altre parti del mondo - il rischio è fortissimo.
Credo la talpa di Bataille non riesca a scavare altro che una fossa, ma si fa quel che si può fino all’ultimo.

Alcune sue prese di posizione provocano fastidio, forse perché coniuga poesie e impegno civile e in ogni caso perché, comunque, legge i fenomeni artistici sempre connessi o immessi direttamente in una dimensione che è sociale e politica a un tempo. Probabilmente è questo che da fastidio ad alcuni critici arruolati nelle liste del revisionismo o che provoca irritazione negli ambienti letterari accademici...
Sì, credo che questo effettivamente conti. Credo che il significato forte delle avanguardie sia in generale quello di avere precisamente dei programmi, che non vuol dire avere dei programmi estetici o non soltanto estetici, vuol dire cercare di radicarli in una visione del mondo e assumerne una responsabilità come intellettuale.
Io parto dall’idea che qualunque comunicatore ha un ruolo intellettuale perché comunica una sua visione del mondo; ma questo anche nella vita quotidiana: quando due persone chiacchierano della bontà di un cibo, stanno dialogando di una filosofia universale, perché dietro il più elementare comportamento sta una visione del mondo. Io ricordo sempre volentieri che se noi giudichiamo molto buoni i vini francesi è perché la Francia ha avuto un’egemonia culturale, economica e militare dopo la Rivoluzione Francese, tale da imporre all’Europa che il Bordeaux è una cosa eccellente, che il Cognac è il liquore migliore del mondo, dopodiché il mondo angloamericano ha contrapposto il whisky e oggi persino la Coca Cola, e quando si dice "ah! la Coca Cola o il McDonald’s
” è una lotta che solo apparentemente è di tipo economico. I no global, il rifiuto del logo pubblicitario, in realtà sono guerre economiche, perché se si paga la Coca Cola si modifica veramente l’economia di una nazione, di gruppi consistenti.
Edoardo Sanguineti
Se è vero che se si comunicano sempre messaggi ideologici, la condizione più ricercabile deve essere quella di cercare di capire il più possibile in che mondo siamo, come accadono le cose, che messaggi si contrappongono e che cosa sia più efficace volendo tutelare una possibilità di esistenza umana come prospettata, sia pure sempre con molta cautela, per via di negazione dal messaggio del materialismo storico, insomma da una possibilità di rivoluzione.
Chi pone i problemi in termini di pura letteratura naturalmente è completamente estraneo a queste cose, ma non è che sia privo di ideologia: è un intellettuale anche lui, ma reazionario. Io credo che valga la pena di sforzarsi di essere intellettuali, progressisti, si dica quel che si vuole... rivoluzionari e soprattutto realisti, che è forse il compito più importante. Qualche volta e volentieri dico che in fondo della poesia m’importa pochissimo; quello che mi importa è la politica e la poesia è uno strumento di comunicazione ideologica. Io lo faccio sapendo di farlo e sapendo - spero - abbastanza in che direzione mi muovo. Altri non sanno in che direzione si muovono e, quando lo sanno, questa direzione viene fuori così com’è, ed è una posizione di conservazione e di reazione.


domenica 20 giugno 2010

BLOG DI CIPIRI: José Saramago è spirato ,,,,#links#links#links#links





SitoInserito: Visibilità su Sito Inserito

SitoInserito: Visibilità su Sito Inserito

La bellezza è nel cervello di chi guarda





A che cosa serve l’arte? Che cosa vuole comunicare un artista? Il “senso del bello” è oggettivo o soggettivo? Sono tutte domande a cui cerca di rispondere la NEUROESTETICA.
Un’opera d’arte è “bella” perché aumenta la nostra conoscenza del mondo. E gli artisti non sono molto diversi dagli scienziati perché, attraverso un metodo e un linguaggio diverso da quello scientifico, hanno scoperto qualcosa di nuovo, “vedono” qualcosa che noi non vediamo, e tentano di comunicarcelo. E’ questa, in sintesi, la tesi di Semir Zeki, professore di neurologia presso lo University College di Londra che, intorno alla metà degli anni Novanta, ha fondato una nuova disciplina: la neuroestetica.
Il cervello è un artista…

semir zeki
Secondo Zeki l’arte, e soprattutto la pittura, è uno strumento straordinario per studiare i processi nervosi attraverso i quali il cervello percepisce la realtà. Di più: anche il nostro cervello quando “vede”, è un artista. In passato si pensava che la visione fosse un sistema passivo, cioè che l’occhio fosse semplicemente un canale attraverso cui passavano i segnali dall’esterno, che arrivavano al cervello così com’erano: l’immagine impressa sulla retina, si diceva, viene “proiettata” sulla corteccia visiva. Oggi sappiamo che la faccenda è ben più complessa. La retina opera una prima selezione: filtra i segnali visivi, registra le variazioni dell’intensità e della composizione spettrale della luce e trasmette queste sensazioni alla corteccia cerebrale. E qui parte un sistema elaboratissimo. La corteccia visiva comprende infatti una corteccia primaria (che agisce da “centro di smistamento”) e una serie di aree associative, che collaborano nell’interpretazione dei segnali. Ci sono per esempio cellule che reagiscono alle diverse lunghezze d’onda della luce trasformando queste informazioni in colori: i colori, quindi, di fatto non esistono, sono una costruzione del cervello sulla base di certe proprietà fisiche delle superfici. Ci sono poi cellule sensibili alla forma e cellule sensibili al movimento o all’orientamento spaziale (alcuni neuroni reagiscono alle linee orizzontali, altri alle linee verticali). C’è inoltre una vasta area specializzata nel riconoscimento dei volti e delle espressioni facciali, e aree sensibili ai movimenti del corpo. Inoltre la vicinanza del lobo temporale, e in particolare dell’ippocampo, risveglia le tracce mnemoniche e permette di confrontare l’immagine registrata con quelle già immagazzinate nella memoria.

le aree visive
In pratica il cervello opera una scelta tra tutti i dati disponibili e, confrontando l’informazione selezionata con i ricordi immagazzinati, genera l’immagine visiva con un procedimento molto simile a quello messo in atto da un artista quando dipinge un quadro. Il nostro cervello, cioè, non è un semplice cronista che si limita a registrare in modo passivo la realtà fisica del mondo esterno, ma è piuttosto un creativo: ogni volta che “vediamo” di fatto costruiamo nella nostra testa un’opera d’arte. Del resto il sistema visivo è un processo che si è evoluto lungo un arco di tempo di milioni anni: abbiamo imparato molto prima a vedere che a parlare. “E’ significativo il fatto che, di fronte a qualcosa di estremamente bello, non sappiamo spiegare la sua forza espressiva a parole” fa notare Zeki. “Si parla di ‘bellezza ineffabile’ perché il linguaggio resta muto, non è in grado di comunicarla. Forse proprio perché il sistema visivo, essendo antecedente al linguaggio, è molto più efficiente”.

sabato 5 giugno 2010

RUBENS E I FIAMMINGHI ....



Borea rapisce Orizia, olio su tavola, cm 146 x 140,5




RUBENS E I FIAMMINGHI
Como, Villa Olmo
Dal 27 marzo al 25 luglio 2010

Peter Paul Rubens


Como organizza la settima grande mostra a Villa Olmo.
I successi delle rassegne dedicate a Mirò, Picasso, Magritte, agli Impressionisti, a Klimt e Schiele, e ai maestri dell’Avanguardia russa Chagall, Kandinsky e Malevic, visitate da oltre 500.000 persone per una media annuale di circa 90.000 visitatori, hanno fatto del capoluogo lariano uno dei punti di riferimento del circuito espositivo italiano.
Le sale della settecentesca Villa Olmo si aprono dal 27 marzo al 25 luglio 2010 al genio di PIETER PAUL RUBENS (Siegen, 28 giugno 1577 – Anversa, 30 maggio 1640), maestro del Barocco.
Uno sforzo considerevole quello del curatore della mostra Sergio Gaddi, assessore alla cultura del Comune di Como, che insieme a Renate Trnek, direttrice della Gemäldegalerie dell’Accademia di Belle Arti di Vienna, è riuscito a radunare ben 25 capolavori del maestro fiammingo provenienti dalle collezioni della Gemäldegalerie dell’Accademia di Belle Arti, dal Liechtenstein Museum e dal Kunsthistorisches Museum di Vienna. Ideata dall’assessorato alla cultura del Comune di Como, la mostra presenta uno dei nuclei di Rubens numericamente più importanti finora mai esposti in Italia, oltre a 40 opere di artisti della sua cerchia, tra i quali il grande Anton Van Dyck, Jacob Jordaens, Gaspar de Crayer, Pieter Boel, Cornelis de Vos, Theodor Thulden.

“La mostra di Villa Olmo - commenta il curatore Sergio Gaddi - celebra la genialità e la modernità di uno dei maestri assoluti della pittura, che dopo quattrocento anni continua a sorprendere per la potenza grandiosa ed esuberante del segno che ha reso universale il Barocco europeo. Rubens è sempre contemporaneo perché fissa nel tempo l’infinita bellezza del mondo e riesce a infondere la vita alle sue creazioni attraverso la luce e il colore. La sua pittura è una festa per l’anima e per gli occhi, e le opere esposte a Como raccontano l’inesauribile gusto per la vita del grande artista e la prodigiosa forza di seduzione che nasce dalle sue visioni. Il consistente nucleo di opere di Rubens è integrato da una raffinata selezione di quadri di artisti variamente legati ad Anversa e all’atelier del maestro, che permette un viaggio appassionante nell’epoca d’oro della pittura fiamminga del Seicento”.




“Con Rubens e i suoi epigoni fiamminghi - sostiene il sindaco di Como, Stefano Bruni - Como si appresta a vivere un’altra straordinaria stagione di grandi eventi, un ulteriore passo di un percorso ambizioso iniziato nel 2004 e che a pieno titolo ci ha già inserito nel circuito delle città d’arte, con importanti benefici per il territorio, per la naturale vocazione turistica e per il prestigio della nostra città. Dopo sette anni, continuo quindi a sostenere e a credere nella straordinaria forza propulsiva delle mostre e nella loro capacità attrattiva”.

Il percorso espositivo studiato da Sergio Gaddi per le nove sale di Villa Olmo, si snoda attraverso i temi caratteristici della pittura di Rubens, come i soggetti sacri, i riferimenti alla storia e al mito, e contempla alcuni dei maggiori capolavori del maestro fiammingo.
Tra questi, le Tre Grazie (1620-1624), vero manifesto dell’ideale bellezza femminile del tempo e che Rubens rappresenta sul modello del gruppo scultoreo ellenistico ritrovato a Roma nel XV secolo. Rubens dipinse il motivo delle Tre Grazie diverse volte, come soggetto singolo o inserito in un contesto più ampio. In questo caso, i tre personaggi femminili sono impersonati nelle figure delle dee greche delle stagioni, vestite solo di un leggerissimo velo, che reggono un cesto di fiori, donando loro uno straordinario movimento circolare e un naturale ed elegante intreccio di braccia e di mani.
Borea rapisce Orizia (1615), vigoroso capolavoro e immagine guida della mostra, rappresenta il rapimento, narrato da Ovidio nelle Metamorfosi, della ninfa Orizia, da parte del barbuto e alato Borea, personificazione del vento del nord. Rubens fonde i due corpi in un avvolgente e fluttuante abbraccio, catturando il momento di transizione che dalla paura e violenza del rapimento conduce a un’estasi di amore e fantasia. Il corpo di Orizia, come quello di tutte le figure femminili di Rubens, è reso con un incarnato talmente realistico e vivo da far domandare a Guido Reni: “Ma questo pittore mescola il sangue ai colori?”
Due opere di straordinaria importanza presenti in mostra sono La circoncisione di Cristo (1605), che risponde a precise indicazioni iconografiche dettate dalla Controriforma di espressione chiara ed immediata di partecipazione al sentimento religioso, e la Madonna della Vallicella (1608) - forse la commessa di maggior prestigio che l’artista ricevette in Italia - due modelli per le pale d’altare della Chiesa dei Gesuiti a Genova e di Santa Maria della Vallicella a Roma, dove l’impostazione teatrale della luce e l’atmosfera cromatica rivelano l’influsso dei grandi pittori veneziani del Cinquecento, che Rubens aveva studiato durante il suo soggiorno a Venezia del 1600.
L’imponente dipinto Il satiro sognante, una delle opere più insolite del maestro fiammingo, realizzata tra il 1610 e il 1612 poco dopo il suo ritorno in Italia, colpisce, oltre che per la sua allegorica sensualità, per l’architettura della composizione che contrappone il gruppo composto da Bacco, dal satiro ubriaco e dalla Menade, a una traboccante natura morta, composta da un prezioso vasellame dorato e da una ricca serie di calici e coppe.
Un’assoluta rarità è Il giudizio di Paride (1605-1608), una delle sole quattro opere che Rubens realizza su tavola di rame, supporto inconsueto per un tema ricorrente nella sua pittura, più volte ripreso fino al famoso quadro del 1638-39 commissionato dal re di Spagna Filippo IV, ora al Prado di Madrid. È questo uno dei più incantevoli ‘poemi’ dipinti da Rubens, in cui tutto, dall’insieme della composizione, alle figure al paesaggio, al cielo che le sovrasta, si risolve nel colore e nella pittura stesa con pennellate fluide, fondendo in un unicum indissolubile sia le figure che l’ambiente che le circonda. Il dipinto raffigura la competizione tra le dee Giunone, Minerva e Venere per il titolo di donna più bella dell’Olimpo, giudicate da Paride.
Particolarmente significative sono le due grandi tele che raffigurano Vittoria e Virtù e Il trofeo di armi, appartenenti al ciclo che Rubens dedicò al console romano Publio Decio Mure (1616-1617). Il tema dei quadri è ispirato alle vicende dell’eroico condottiero vissuto nel IV secolo a.C., la cui storia è stata tramandata da Tito Livio. Le grandi imprese hanno sempre stimolato l’artista, tanto da fargli dire, in una lettera del 1621 indirizzata a William Trumbull: “Confesso che una dote innata mi ha chiamato a eseguire grandi opere piuttosto che piccole curiosità. Ciascuno ha la sua maniera. Il mio talento è di siffatta guisa che nessuna impresa, per quanto grande e multiforme nell’oggetto, potrà sormontare la fiducia che ripongo in me stesso”.
Di notevole valore storico, oltre che artistico, la serie dei piccoli oli su tavola di soggetto sacro, dipinti da Rubens come modelli preparatori per i 39 dipinti commissionatigli nel 1620 per i soffitti della chiesa dei Gesuiti di Anversa, opere che andarono poi distrutte dall’incendio della chiesa del 1718. La costruzione pittorica di particolare dinamismo e la prospettiva dal basso verso l’alto testimoniano la suggestione di Paolo Veronese esercitata sulla fantasia di Rubens. In questi preziosi lavori preparatori sopravvissuti è possibile incontrare più che mai la mano autografa dell’artista, che realizzava personalmente i bozzetti affidandosi poi alla collaborazione della bottega per il perfezionamento dell’opera finale.
AAccanto a questi capolavori di Rubens, la mostra di Villa Olmo propone 40 tele realizzate da pittori fiamminghi della sua cerchia, in particolare di Anton Van Dyck, amico del maestro e certamente l’allievo di maggior talento – di cui è presente, tra gli altri, il famoso Autoritratto giovanile e lo splendido Ritratto in armi del giovane principe - oltre che opere di Jacob Jordaens, Gaspar de Crayer e Theodor Thulden.
Tra i fiamminghi spiccano, per particolare pregio e minuzia del dettaglio, le nature morte di Pieter Boel, Jan Fyt e Jan De Heem in cui è possibile incontrare quella commistione di naturalismo, esotismo e artificialità tipica delle raccolte nobiliari delle kunstkammern tanto di moda nei Paesi Bassi del XVII secolo. È il caso di Natura morta con mappamondo, tappeto e cacatua di Pieter Boel o Natura morta con frutta e scimmia di Jan Fyt o ancora la sontuosa Natura morta con pappagallo di Jan Davidsz de Heem. Una variante della natura morta, molto apprezzata nelle Fiandre intorno alla metà del Seicento è quella delle scene di cacciagione, ben rappresentate in mostra da opere come Il pavone bianco di Jan Weenix (1693), o le due Natura morta con cacciagione, rispettivamente di Jan Fyt e Melchior Hondecoeter.
Don Chisciotte, cavaliere del Barocco è il nuovo progetto teatrale, a cura di Teatro in Mostra di Como, regia di Eleonora Moro, che anche quest’anno si affianca all’esposizione come evento parallelo di approfondimento didattico per indagare i legami tra Rubens e l’epoca barocca.
Catalogo Silvana Editoriale.

domenica 14 marzo 2010

giovedì 25 febbraio 2010

“Faber” unico e universale ......




.
Arriva a Roma l’esposizione multimediale e interattiva che racconta la vita di Fabrizio De André



Anche Roma, dopo Genova e Nuoro, rende omaggio a Fabrizio De André ospitando negli spazi espositivi del Museo dell’Ara Pacis, dal 24 febbraio al 30 maggio 2010

A 70 anni della nascita di Faber un percorso multimediale ideato da Studio Azzurro ne racconta la vita, la musica, le passioni che lo hanno reso unico e universale, interprete e in alcuni casi anticipatore, dei mutamenti e delle trasformazioni della contemporaneità.

“Fabrizio De André. La mostra”, a cura di Vittorio Bo, Guido Harari, Vincenzo Mollica e Pepi Morgia, è una sorta di narrazione virtuale, multimediale e interattiva che propone al pubblico un’esperienza emozionale nell’universo di“Faber”.
Scrivono i curatori: “Fabrizio aveva fatto sua la massima di Leonardo Sciascia, secondo cui un uomo di cultura ha il dovere di esprimersi in maniera popolare. La sua intelligenza aveva trovato fiato nella forma canzone. Attraverso questa ha sempre cercato di risvegliarci dal sonno della coscienza, dall’appiattimento programmato di un pensiero sbrigativo e di comportamenti asserviti. Con rabbia, con satira feroce, con semplice genialità, con quella sua dolce anarchia che voleva ricordarci, in ogni modo, di pensare con la nostra testa. La rivoluzione comincia dentro ciascuno di noi”.

La mostra affronta i grandi temi della poetica di De Andrè: la società del benessere e il boom economico degli anni ’60, gli emarginati e i vinti, la libertà, l’anarchia e l’etica, gli scrittori e gli chansonniers, le donne e l’amore, la ricerca musicale e linguistica, l’attualità nella cronaca, i luoghi rappresentativi della sua vita.

Accolgono il visitatore sei schermi trasparenti allineati in prospettiva ottica che raccontano altrettanti temi: Genova, l'amore, la guerra, la morte, l'anarchia, gli ultimi. Un percorso interattivo racconta la produzione discografica di Fabrizio. Una serie di piccoli pannelli,che riproducono le copertine dei principali dischi di studio, possono essere scelti e posizionati su appositi tavoli multimediali, attivando una serie di proiezioni.
Il visitatore potrà così “incontrare” Fabrizio, i suoi amici e collaboratori, il critico Riccardo Bertoncelli che, con i loro contributi, inquadreranno il periodo storico e il clima sociale in cui quel disco è stato prodotto, i meccanismi della scrittura e della registrazione.

Nel terzo ambiente appaiono i personaggi delle canzoni di Fabrizio. Vicino ai tarocchi originali, creati da Pepi Morgia per la scenografia della tournée de “Le nuvole”, sono posizionati tre schermi della stessa forma e dimensione. Sono tarocchi virtuali dentro cui appaiono trentuno personaggi. In uno spazio attiguo troviamo il pianoforte di Fabrizio anche una Sala Cinema - Fabrizio in video. Una dettagliata cronologia e nuovi “sguardi d’autore”, con stampe fotografiche di grande formato. Il visitatore potrà scegliere tra 25 immagini riprodotte su altrettante lastre di plexiglas che potranno essere inserite in apposite cornici su cavalletti, che ricordano in maniera stilizzata i vecchi banchi ottici. Una volta posizionate, le lastre attiveranno una serie di proiezioni di immagini, filmati, videointerviste e altro ancora, legati a un determinato periodo della vita di Fabrizio.
E infine nella nicchia sotto il monumento dell’Ara Pacis, Tracce di una vita quattro teche raccolgono una selezione di significative tracce di una vita.

Una mostra che invita il visitatore ad essere attivo a scegliere la propria immagine di “Faber” da sviluppare per sé, in relazione con il proprio vissuto.